
Gianni Schiavon |
Erano state, quelle dipinte da Enzo Neri all’immediato principio degli anni Ottanta,
e forse già sul terminare del precedente decennio, superfici inondate di luce;
d’una luce vibrante, pulsante, danzante, che allagava, affogava talora, i territori
del dipinto: vasti e silenti spazi d’assenza che si spalancavano innanzi allo spettatore;
misteriosi, vertiginosi spazi, quasi oppressi da quell’incontenibile dilagante luminosità
loro intrinseca, che non pareva lasciare alternative all’ansiosa sua volontà di affermarsi,
di imporsi, di conquistare la pelle della tela e, non meno, le sue più recondite profondità.
Distanze insondabili agli occhi, eppure così ammalianti per la mente, erano celate dalla luce
stessa, e parevano contenere, assieme al clamante, danzante chiarore, le memorie perdute di
candide inafferrabili dolcezze. Eppure, quel candore, nel secondo lustro di quello stesso
decennio, era d’un colpo andato smarrendo le sue trasparenze; s’era ispessito ed illividito.
Segni e sgraffi e graffiti s’erano affacciati sul biancore degli spessori atmosferici, che
divenivano allora vernice e calce di muro, e che talora s’ingrigivano a suggerire una parete
segnata dal tempo, oltre che dall’uomo. Segni erranti, infatti, la percorrevano; segni sparsi,
spersi, spauriti, sommersi, cancellati talora; altre volte, criptiche o esplicite, s’affacciavano
parole ed intere frasi: l’opera di Gastone Novelli e di Cy Twombly pareva echeggiare su quelle
tele, per un momento, anche se presto, prestissimo, il tutto si sarebbe infine incupito, sino a
trasformarsi in un vertiginoso campo di catrame e di lava, talora di sangue, ancor caldo, nel
quale la materia stessa sarebbe cresciuta sino a farsi spessa come la pece; stesa con una
violenza ormai gestuale e, talora, con la medesima foga sottratta, incisa com’era da sfregi
rapidi e feroci, reiterati, inferti con inaudita insistenza. Non più, allora, la quiete d’un
magico sogno di luce, ma il fragore d’una infernale voragine: l’estremo ‘agire’ di Willelm De
Kooning e del coevo Toti Scialoja tornavano alla mente innanzi a quelle pitture, ma la loro
ultima, incontenibile tensione gestuale, materica e formale, non poteva resistere lungamente;
non almeno quell’esasperazione espressiva che all’artista, ad ogni modo, era chiaro non appartenere.
Ed allora, il gesto sarebbe dapprima andato facendosi struttura; mirabile incastro di latenti
entità formali, rivelatrici di quella volontà costruttiva che già era stata dell’opera di Franz
Kline e di Pierre Soulages. Poi, infine, raggiunto un nuovo e più profondo equilibrio, intangibile
adesso, all’affacciarsi del nuovo decennio, il tutto s’era d’un tratto s’acquietato, pur senza
tuttavia, in nessun modo, poter ripetere, o solo anche rievocare, la pace d’un tempo. La materia
s’era dunque anzitutto, in un sol colpo, illimpidita, sino a toccare immediatamente il vertice
d’una purezza ineguagliata, ed anche il gesto aveva raffreddato la sua energia tornando ad
essere segno, che, pur nella sua violenta rapidità, appariva adesso mai approssimativo; veloce
eppur mai incontrollato, anzi quasi chirurgico, tanto era semmai preciso ed elegantissimo:
mentre, nel contempo, era lo spazio stesso ad esser mutato, scompartendosi per piani
d’infallibile geometria che mai volgevano alla rigida astrazione costruttivista, ed anzi, più
spesso, suggerivano, come a definire una nuova spazialità latentemente naturalistica – e che
non è dunque più quella vertiginosa del decennio precedente –, idee d’orizzonte in particolare,
e vele e bandiere al vento, e asteroidi e piramidi; e poi, poco tempo più avanti, vere e
proprie terre desolate, più simili a luoghi d’altri tempi o dimensioni; ma anche cieli vastissimi,
percorsi da saette, o infine, come nei più recenti lavori, tempestati da intangibili costellazioni.
La figurazione, dunque, dapprima soltanto occulta, s’andava riaffacciando sempre più sovente
e sempre più esplicitamente nella pittura dell’artista, sempre ad ogni modo celando criptici
messaggi che soltanto l’occhio più erudito sapeva e poteva cogliere.
E da allora, coerentemente,
l’opera di Enzo Neri avrebbe proseguito per quella via intrapresa, con sperimentale singolarità,
sino agli ultimissimi pezzi realizzati in questo 2011, nei quali la sfera anzitutto, ma anche il
triangolo, con le loro profonde, occulte simbologie, giganteggiano, assolutamente dominanti, e
determinano il campo d’una pittura che s’è di nuovo irruvidita, ridotta peraltro ad una gamma
cromatica ristrettissima e severa, che non cede un attimo a quel puro piacere pittorico di contro
caratteristico – anzi quasi protagonista – dei contemporanei pastelli, peraltro legati ad una
figuratività addirittura spiccata, e dunque antitetica ai geometrismi di queste tele,
deliberatamente prossime ad un concretismo di rara singolarità. Indecifrabile è, dunque,
il cammino che il Maestro compirà già anche soltanto nei mesi immediatamente prossimi, come
altrettanto certa è l’unicità stilistica e poetica della Sua opera, e questa sperimentale
coerenza caratteristica del Suo cammino, che fanno di Neri uno dei protagonisti indiscussi –
nonostante l’appartato operare ed il volontario isolamento dai circoli e dai ritrovi, come dalle
tante occasioni espositive minori – della più autentica (per quanto poco nota) scena artistica
livornese e toscana; di quell’ambiente composto da pochi eccellenti personaggi nei quali cuori
ancora arde il Sacro Fuoco dell’Arte, e che lavorano nell’ombra, silenziosamente, volutamente
al riparo dalle regole d’una logica mercantile sempre più protesa a premiare il bravo artigiano,
ma che soprattutto, assai tristemente, intende illudere il pubblico della bontà d’un lavoro che,
nell’ipotesi migliore (peraltro rara), è nient’altro più che buona decorazione.
Il Pastello
“Inutile sarebbe prospettare, come ha voluto Enzo Neri, una sorta d’Elogio del
pastello, se non vi fossero artisti che ancora ne posseggono il segreto; le
regole d’una tecnica antica, ed oggi, in tempi di diffuso dilettantismo
artistico, ovviamente desueta proprio per quella sua insita difficoltà esecutiva
che, al contrario, affascina ed avvince il Maestro livornese, costantemente alla
ricerca d’una unicità non soltanto poetica del proprio lavoro. Quel pastello che
non ammette ripensamenti e correzioni, utilizzato già sullo scorcio del
Quattrocento da Leonardo da Vinci per gli studi e gli schizzi, e divenuto poi,
oltre due secoli più tardi, tecnica diffusissima nella ritrattistica, salvo in
seguito subire un oblio riscattato soltanto dall’epopea impressionista, quando
in particolare Edgar Degas, dalla metà degli anni Settanta dell’Ottocento, lo
utilizzerà, in sostituzione dell’olio, per le sue qualità luminose e la
possibilità di sfruttarne il segno in senso dinamico. Per Neri, i pastelli, come
gli stessi disegni a grafite – copiosa parte della sua produzione –, sono
d’altronde opere finite ed assolutamente paritetiche, per impegno ed
elaborazione, alle pitture ad olio e ad acrilico. Ne conservano, effettivamente,
il linguaggio ed ‘il fare’, che in essi anzi trova, probabilmente, la più
mirabile e compiuta espressione della Sua Arte. Nei valori luminosi anzitutto,
che concretizzano straordinariamente un albore diffuso ed avvolgente, emergente
da una sorgente profonda, misteriosa e segreta come fosse la memoria o il sogno;
carica sempre, com’è, di valenze apparizionali ed evocative. Una luce diafana,
eppur vibrante, dalla quale emergono piani spaziali che s’incontrano,
s’incrociano, si scontrano, s’impuntano; che vanno come frantumandosi ed
esplodendo nello spazio, impiantando strutture dalla sapiente calibratura, e che
paiono ora levarsi vertiginose al cielo, talvolta dinamicizzate sino alla
vertigine, ora suggerire orizzonti e profondità; alle volte percorsi, persino,
attraverso i quali addentrarsi nelle lontananze silenziose e respiranti della
superficie. Piani dall’inflessibile disciplina compositiva e dal segno
perentorio, rigoroso e puntuale, ai quali sempre s’accompagna, in straordinaria
antitesi, un contemporaneo segnare la carta con fare intenso ed apparentemente
gestuale, che non cede tuttavia un attimo al puro istinto ma che dell’istinto
conserva una carica vitale ed una energia capaci di farne, a loro volta,
elemento strutturante della composizione. Un segno inafferrabile, nella sua
apparente velocità esecutiva, sempre aggressivo, talora teso all’estremo da una
preziosa e quasi chirurgica precisione: ora inciso, che ferisce e scava la carta
trattenendo la luce, e che dunque è taglio, e ombra, e profondità; e che ora è,
invece, improvvisa scia luminosa, saetta d’intenso fulgore, energeticamente
divina. Segni, ad ogni modo, sempre, che paiono graffiare lo spazio come artigli
di tigre, o attraversarlo come una pioggia dirotta; ora ancora sono fendenti di
lama, librati con foga, veementi; ora, più aggraziati, paiono suggerire ampi
voli d’uccelli predatori: solo raramente il tutto s’acquieta in un più morbido
‘fare’, ed allora quella grazia apollinea del colore si proclama in tutto il suo
splendore. Una pittura comunque coltissima, questa di Neri: artista che conserva
il culto per il mestiere ed il senso della proporzione rinascimentale di Piero
della Francesca e Paolo Uccello, ma che soprattutto dimostra aver compreso e
saputo assimilare, dissimulando il tutto secondo la propria sensibilità, i
motivi e le più profonde regole spaziali, ritmiche e compositive
dell’astrattismo lirico di Kandinskij e del concretismo di Mondrian e Malevic,
culminati nelle internazionali formazioni parigine di “Cercle et Carré” ed
“Abstraction Création”; ma anche la lezione del cubismo analitico e la sua
rielaborazione postbellica neocubista; come pure il senso del segno di Kline,
come di quelli di Hartung e di Fontana (non a caso, il livornese, sul principio
degli anni Sessanta era frequentatore assiduo di quel Bar Giamaica scelto come
base operativa dall’avanguardia milanese di Manzoni e Castellani, di Colombo,
Anceschi, Dorfles e dello stesso Fontana); ma anche il valore temporale delle
cadenzate consequenzialità formali di Motherwell e di Scialoja; la pulsante
spazialità di Rothko. Uomo dalla vasta cultura umanistica, oltre che artistica,
in questi lavori ultimi, Neri, affascinato dal mito d’Ulisse ne propone alcuni
tra i passaggi salienti, cercando e trovando, in essi, la proiezione metaforica
del proprio vissuto, perché il viaggio omerico non è semplicemente tentativo di
ritorno ad Itaca; anzi, più intrinsecamente, si rivela ad ogni momento scoperta
e messa alla prova delle proprie potenzialità, oltre che ricerca dell’Io più
profondo dell’uomo e del guerriero; e Neri, d’altronde, è un infaticabile
ricercatore, oltre che un combattente d’altri tempi. Senz’altro uno spirito
Romantico, nel senso letterario (e non letterale) del termine; byroniano, direi,
nel modo diretto ed intenso d’affrontare l’esistenza e le cose, piuttosto che
leopardiano; istinto ed azione più volentieri che riflessione ed abbandono; vita
trascorsa spremendone ogni attimo e non attesa della sorte o elegiaca
meditazione, come d’altro canto si confà ad uno spirito tremendamente inquieto,
quale è indubbiamente il Suo. Pittore dalla ricerca sinceramente ispirata ed
intensa, portata avanti con la massima serietà d’impegno ed un coraggio, oggi
assai raro, di non scendere a compromessi col mercato ed i collezionisti –
nonostante il disincanto nei confronti d’una realtà ambigua ed amaramente tesa a
celebrare il bravo artigiano piuttosto che l’autentico artista –, dopo
cinquant’anni di pittura il Maestro livornese è perduto ancora, totalmente,
disperatamente, senza respiro nella propria Arte, della quale si abbevera
quotidianamente; della quale, senza farne mistero, è orgogliosamente quanto
intimamente prigioniero, come un guerriero omerico che non abbandonerà mai le
armi, come un felino che non disdegnerà mai la preda.”
Gianni Schiavon, allievo di Fabrizio D’Amico, si laurea all’Università degli Studi di Pisa in Conservazione
dei Beni Culturali con indirizzo contemporaneo nel 2002 e presso il medesimo ateneo
(col quale collaborerà poi sino al 2009) consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Storia
delle Arti Visive nel 2006 con una pubblicazione dal titolo “Pittura espressionista a Roma
nel V decennio del XX Secolo”. Partecipa ai cataloghi del Maestro Franco Guerzoni per le
mostre “Sipari” (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti di Verona 2004),
“Pitture Volanti” (Reggio Emilia 2004) e “Nero” (Milano 2005), e con Vincenzo Farinella
cura la grande retrospettiva “Andrea Cefaly. Il Maestro ritrovato”, al Complesso Monumentale
del San Giovanni di Catanzaro nel 2004 e poi alla Fondazione Carical di Cosenza nel 2005.
Nel 2006 collabora al catalogo della mostra “Toti Scialoja - Opere 1983-1997” alla Galleria
dello Scudo e alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti di Verona. Nel 2008
coopera alla mostra al Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno dal titolo “Due capolavori
ritrovati” realizzando il testo dedicato a Llewelyn Lloyd e nello stesso anno cura il
catalogo e la mostra “Gino Romiti. Dagli esordi al secondo dopoguerra” organizzata dalla
Galleria Goldoni di Livorno. Nel 2009 partecipa col saggio principale alla monografia
“Guido Guidi (1901-1998)” edita da Benvenuti e Cavaciocchi; cura con Vincenzo Farinella
la cartella “Giovanni Lomi - Ville Lumiere” edita da Debatte, e cura con Alessandro Russo
la mostra “Materia e Colore” presso il Complesso Monumentale del San Giovanni di Catanzaro.
Nel 2010 partecipa al catalogo della grande mostra “I Basaldella”, a Villa Manin di
Passariano del Friuli, con un testo su Afro Basaldella, e cura con Valentina La Salvia e
Massimo Padovani la mostra antologica dedicata a Piero Monteverde, alla Galleria Goldoni
di Livorno. Sempre nel 2010 è Consulente e Coordinatore artistico del Premio Città di
Livorno e cura la monografia “Gio Batta Lepori. Nell’animo della Natura” edita da Bandecchi
e Vivaldi. Nel 2011 cura la monografia “Maria Mancuso. Il grido nel fango” edita in occasione
dell’antologica dell’artista al Mastio Angioino di Napoli e con Vincenzo Farinella la grande
mostra “L’eredità di Fattori e Puccini. Il Gruppo Labronico tra le due guerre” tenutasi ai
Granai del Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno. Ha tenuto numerose conferenze tra le
quali spiccano in particolare quella dal titolo “Giovanni Fattori: riflessioni e approfondimenti
intorno alla sua opera nel centenario della scomparsa e l’eredità fattoriana nelle scuole
pittoriche Postmacchiaiola e Labronica”, organizzata nel novembre 2008 dall’“Associazione
Culturale Dante Alighieri” nelle città di Lucerna (Casa d’Italia), Losanna (Maison de
Chermettes), Biel (Università degli Studi), Basilea (Università degli Studi) e Olten (Hotel
Astoria) e quella dal titolo “Arte in Italia 1860-1960”, organizzata sempre dall’“Associazione
Culturale Dante Alighieri” nell’aprile 2010 nelle città di Locarno (Collegio Papio Ascona),
Basilea (Università degli Studi), Winterthur (Altes Schulhaus), Losanna (Maison de Chermettes)
e Olten (Hotel Astoria). Dal 2008 collabora con Vincenzo Farinella nella curatela della
collezione d’arte della Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno per la quale, sempre con
Farinella, ha realizzato l’allestimento del costituendo museo.
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